Il sacco degli uffici per l’impiego: tra privatizzazione, precariato e diritti calpestati
Monologo satirico di Luca Bocaletto
Per prima cosa, ricordiamoci da dove nasce la “privatizzazione” del pubblico impiego in Italia: dal 1993, con il dlgs 29/1993 e poi il dlgs 165/2001, gran parte dei rapporti di lavoro nella PA è stata convertita da disciplina pubblicistica a contrattualizzazione di diritto privato. Quegli stessi uffici per l’impiego, nati con la Costituzione per garantire accesso al lavoro tramite concorsi pubblici, sono stati via via esternalizzati e trasformati in centri di intermediazione gestiti da agenzie e cooperative, con gare al massimo ribasso e scarso investimento in personale qualificato.
Il risultato? Procedure opache, personale sottodimensionato e corsa ai voucher, ai “tirocini” e allo “stage” di massa. Chi entra in un CPI oggi viene instradato verso offerte lampo, sempre con contratti a termine o part-time involontario: l’imprenditore trova manodopera pronta all’uso e a basso costo, il lavoratore finisce intrappolato in un ciclo di rinnovi precari senza tutele reali. Ogni obbligo di accompagnamento, di formazione o di verifica dei requisiti resta sulla carta, perché l’appalto è valutato sul numero di collocati, non sulla qualità delle posizioni offerte.
A questo si aggiunge il problema dell’età pensionabile, salita oggi a 67 anni + 3 mesi dal 1 gennaio 2027 e destinata, se non cambierà nulla, a toccare i 71 anni entro il 2060. Invece di favorire un ricambio generazionale, si allungano le carriere attive, si paralizzano i turn over e si svuotano le speranze dei giovani: chi “scalda la poltrona” oltre limiti ragionevoli toglie posti a chi dovrebbe entrarci, innescando una spirale di disoccupazione giovanile e frustrazione sociale.
Per chi ha una disabilità, il quadro è ancora più drammatico. La legge 68/1999 stabilisce quote d’assunzione – il 7 % per le aziende con oltre 50 dipendenti – ma i controlli sono un miraggio. Nel 2021 l’Ispettorato nazionale del lavoro ha comminato soltanto 327 sanzioni per mancata copertura delle quote, e 141 nel 2022, su centinaia di migliaia di potenziali posti da riservare a categorie protette – un tasso di applicazione penoso che certifica come le imprese rifiutino volontariamente l’obbligo e gli enti di vigilanza non esercitino il loro dovere. Ne consegue che migliaia di invalidi laureati o con esperienza restino parcheggiati nei registri, senza prospettive reali di inserimento dignitoso.
Queste distorsioni dipendono da un meccanismo perverso: privatizzare i servizi, ignorare i vincoli costituzionali (accesso tramite concorso) e sostituirli con logiche di profitto e di risultato numerico. Chi beneficia? Le agenzie per il lavoro, le cooperative, le società di intermediazione – e dietro di loro i grandi gruppi privati che si accaparrano finanziamenti pubblici a pioggia. Chi perde? I cittadini, che pagano 20 miliardi l’anno di spesa per politiche attive poco attive, senza vedere migliorare l’occupazione stabile.
Occorre invertire la rotta:
• Ripubblicizzare gli uffici per l’impiego, ripristinando il concorso come tramite di accesso e rafforzando organici e competenze;
• Introdurre veri indicatori di qualità, legando il finanziamento degli appalti non ai numeri assoluti ma ai contratti a tempo indeterminato e all’effettiva stabilizzazione;
• Bloccare qualsiasi ulteriore aumento dell’età pensionabile finché non sono garantite tutele per i giovani e meccanismi di turnover obbligatori nelle PA;
• Sanzionare in modo massiccio le aziende che non rispettano le quote di assunzione dei disabili, con controlli sistematici e banche dati centralizzate;
• Destinare parte dei fondi per attuare percorsi di formazione mirati agli invalidi e rafforzare i servizi di supporto nelle sedi territoriali.
Solo restituendo trasparenza e public service agli uffici per l’impiego potremo ridare dignità al lavoro, interrompere la catena del precariato e creare opportunità per tutti: dai neodiplomati agli over 65, dai disoccupati di lungo corso alle persone con disabilità. È una sfida di democrazia e di coesione sociale, che mette al centro i diritti del popolo lavoratore, non i profitti imprenditoriali.