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Sanità

Monologo poetico di Luca Bocaletto

La Sanità… due sillabe, un patto sociale, una promessa fatta di mani tese e cuori tremanti. Eppure, ogni mattina, quelle mani trovano camere vuote di medici e corridoi pieni di stanchezza. Le barelle si accatastano come scatole di cartone sotto un’insegna luminosa che promette “pronto soccorso”, ma nessuno ti dice che, oltre la porta, c’è un’attesa che somiglia a una condanna. Avete presente l’ospedale di quartiere? Una volta era un rifugio, ora è una postazione di guerra: cartelle cliniche digitali che si bloccano, personale al collasso, reparti ridotti all’osso. Lo Stato, quel grande regista, ha tolto i fondi e tagliato i posti letto e adesso il tuo ricovero diventa una lotteria: esci vivo? Aspetti in corridoio o torni a casa con il cerotto impiastricato? Le cucine sfornano cibo senza sapore, perché il budget per materiali è misero. Le infermiere corrono con i carrelli, ma non c’è abbastanza personale per coprire ogni turno. Le guardie giurate ti impediscono di portare ricordi: “Non passare alimenti”, “Non portare coperte”, “Non disturbare la routine”. E intanto le bollette dell’ospedale restano impagate, i conti in rosso, e le stanze d’ospedale odorano di economia, non di cura. Ci vendono l’eccellenza in brochure patinate, con poltroncine di pelle e sale d’aspetto in marmo, ma poi scopri che per una risonanza magnetica servono spese aggiuntive, per un’ecografia prenotata in convenzione devi aspettare sei mesi, e se chiedi l’urgenza privata, preparati a lasciare un terzo del tuo stipendio sul tavolo d’attesa. Gli ospedali di città ingoiano i medici e i medici fuggono verso nazioni più generose, e adesso un chirurgo che lavora 60 ore alla settimana è un eroe stanco, mentre le specializzazioni si comprano a caro prezzo e le borse di studio sono un miraggio. La formazione? Un’altra voce di spesa tagliata. La ricerca biologica? Un lusso che il tesoro considera secondario. E i malati cronici? E i bambini nati prematuri? E gli anziani con il respiro corto? Gli speroni da ospedale diventano montagne invalicabili, si sale tra ricorsi al tribunale, liti con l’assicurazione, silenzi burocratici. La ricetta rossa costa 50 centesimi, ma per ogni pastiglia paghi un prezzo più alto: la dignità di non sentirti un peso, la serenità di non temere che un calo di budget ti faccia scorrere fuori dalla linea. E poi i ticket regionali: un’astronave di codici e scadenze. Non basta più “famiglia”: servono buste paga, ISEE, attestazioni, documenti scaduti, e se sbagli un timbro, ricomincia tutto daccapo. Vi hanno mai detto che la sanità è un diritto? Te lo ripetono nei discorsi elettorali, poi sottraggono risorse, smontano reparti, privatizzano una corsia alla volta. “Ospedali di comunità” li chiamano: camere dove un letto vale più di una carezza, turni che durano fino al collasso, silenzi che coprono il pianto. E i medici di base? Sono rarità in via d’estinzione. Il tuo “dottore di fiducia” è diventato uno schermo che ti parla dietro una chiamata, una prescrizione inviata via e-mail, un click per ogni tampone e per ogni sintomo. Il contatto umano si riduce a un referto, la visita a un consulto registrato. E ancora: la prevenzione non fa click, non paga spot in campagna elettorale. Lo screening mammografico costa meno di una statistica irritante, la vaccinazione di massa vale un tweet celebrato, ma le stanze fradice di infiltrazioni restano aperte, i muri cadenti rimangono lì, a ricordarci che il mattone ha più valore dei battiti del cuore. Eppure, dentro ogni corsia, c’è ancora uno scampolo di umanità: l’infermiera che ti tiene la mano, il volontario che spezza il silenzio, il tecnico che spiega il macchinario con un sorriso stanco. A loro va il vero applauso, non a chi taglia e vende pezzi di sanità a saldo. Allora, cittadini, facciamo un patto? Non applaudiamo più il camice bianco come fosse un miracolo. Non paghiamo la nostra salute come se fosse un optional. Non chiudiamo gli occhi davanti alle ferite della sanità pubblica. Serve un investimento reale, non un’operazione di facciata. Servono ospedali vivi, non esche per turisti sanitari. Serve medicina che curi, non numeri da bilancio. Serve un sistema che misuri il benessere in vite salvate, non in costi risparmiati. E se questo monologo riaccende nel vostro petto un fuoco di rabbia e pietà, non spegnetelo: accendetelo nei vostri sindaci, deputati, ministri. Perché la vera salute di un Paese non si legge nei grafici di spesa, ma nei sorrisi dei pazienti che tornano a casa, nelle mani che non tremano più alla sola idea di un ticket non pagato o di un corridoio pieno di attese infinite. Buonanotte, Sanità… domani ti chiediamo di svegliarti.