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Possiamo inventarci assemblee di silenzio, in piazze, in cortili, in stanze senza wi-fi:
ci sediamo uno accanto all’altro e restiamo zitti finché il respiro diventa parola.
Possiamo dichiarare una tregua dalle notifiche, un'ora in cui nessuno risponde, nessuno scrolla, nessuno giudica:
solo mani intrecciate e sguardi liberi.
Possiamo scrivere lettere a mano, indirizzarle a chi non conosciamo,
raccontare un segreto, un dubbio, un sogno, sapendo che quel foglio durerà più di un like.
Possiamo organizzarci in “bancarelle dell’attenzione”, dove il prezzo d’ingresso è ascoltare senza interrompere,
dove ogni parola ha il peso di un gesto, e nessuno si alza senza aver fatto spazio all’altro.
Possiamo leggere a voce alta poesie rubate al tempo, poi discuterne come se fosse un teorema segreto,
riconoscendo che la bellezza unisce più di un algoritmo.
Possiamo spartirci lo schermo: ognuno spegne il proprio a turno,
per ricordarsi com'è guardare l'orizzonte senza il bordo di un rettangolo luminoso.
Possiamo stabilire un patto d’onestà, in cui chi sbaglia ammette “mi sono distratto”…
e chi ascolta risponde “ti capisco”.
Possiamo restituirci la noia, quella lunga pausa tra un gesto e l’altro,
in cui fiorisce l’idea e prende forma l’inatteso.
Possiamo ridare vita alle feste senza hashtag,
dove il “presente” non è digitale, ma un sorriso che attraversa la stanza.
Così, passo dopo passo, in ogni piccolo gesto di resistenza,
riaccendiamo la frequenza dell'umano e spegniamo l'eco dell'algoritmo.