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Avete mai sentito un politico spiegare il proprio cuore? No? Nemmeno io.
Qui invece c’è chi elogia la propria bontà mentre scarica la fame di centomila famiglie sotto il tappeto.
Ogni volta che sale sul palco, ti racconta di ponti e strade nuove, di scuole rifatte e sanità rilanciata.
Peccato che, quando le luci si spengono, i cantieri restano chiusi e i vecchi muri continuano a crollare sulle teste dei più fragili.
Parlano di lavoro, di crescita, di futuro.
Ma il loro lavoro è restare comodi, la loro crescita sta nei bilanci privati, e il loro futuro coincide con la prossima campagna elettorale. Il popolo, invece, resta incastrato tra le promesse non mantenute e il conto da pagare alla fine del mese.
Li vedete sorridere alle telecamere, stringere mani candide, farsi immortalare con un bambino in braccio: all’istante il volto gentile del padre di famiglia.
Poi, appena lasciato il flash, quel bambino resta un numero nella colonna delle spese da tagliare.
Hanno il potere di cambiare leggi, di riscrivere la Costituzione, eppure non riescono a cambiare il modo in cui pensano.
Difendono a oltranza chi acquista voti con il conto in banca, respingono chi chiede dignità con la voce rotta dalla fatica.
Sentono la voce del popolo solo quando vibra nei sondaggi.
Poi la soffocano con retorica e litanie politiche, conchiuse in stanze che odorano di tappezzeria antica e di lobbisti sussurranti.
E noi? Noi restiamo fuori, con la tessera in mano, pronti a incollarci un’etichetta nuova ogni cinque anni.
Ci dicono: “Tu conta, il voto è tuo”. Ma il loro vero conto chi lo verifica? Chi controlla i benefit, i mandati, i conflitti d’interesse?
Dopo ogni elezione scopriamo che nulla è cambiato, che i diritti calpestati di ieri lo saranno anche domani.
E allora ci chiediamo: “Perché continuiamo a credere a chi spaccia parole di equità su un mercato dove l’unica merce possibile è il privilegio?”
Forse perché siamo stanchi di pensare con la nostra testa, o forse perché ci manca il coraggio di pretendere di più.
E così consegniamo ancora le chiavi di casa, affidandoci a chi possiede il violino dei proclami ma non sa suonare l’accordo della responsabilità.
È tempo di riappropriarci della piazza, di alzare l’urlo fuori dai microfoni pilotati, di non applaudire più il teatro delle promesse.
Non chiediamo un nuovo Re: chiediamo persone che sappiano cos’è davvero un servizio pubblico, che non misurino la propria grandezza in voti, ma in solidarietà.
E quando vedrete un politico fermarsi davvero ad ascoltare, non quel “vi interrogo” di facciata, ma il suono sordo dei bisogni reali, allora saprete che la stagione dei burattini è finita. Sarà l’inizio di un’altra musica: quella del popolo che decide e di chi non ha più paura di voltare pagina.