Avete presente quei libri di storia in cui i re decidevano del vostro destino con un tratto di penna, mentre voi eravate sudditi senza voce?
Oggi i castelli si sono spostati: non sono più pietre e torri, ma uffici stampa, social network e incontri blindati nei palazzi romani.
E i nuovi sovrani siedono su scranni chiamati “poltrone istituzionali”.
Guardate i loro sorrisi smaglianti in tv: promettono rivoluzioni che non arrivano, tagli fiscali che non esistono e posti di lavoro che non fanno.
E voi pensate: “Saranno migliori di quelli di prima”.
Poi passa il tempo, cambiano i colori dei loghi e delle bandierine, ma il teatrino resta lo stesso.
Le promesse evaporano, i provvedimenti tardano o spariscono, e i responsabili? Eccoli ancora lì, con lo stesso sorriso, a convincervi che il problema siete voi, che non partecipate abbastanza, che non capite le regole del gioco.
Perché i veri monarchi 2.0 non hanno bisogno di corone d’oro.
Hanno il privilegio dell’informazione filtrata, il potere di chiudere le porte alle domande scomode e di dire la loro in parlamento senza mai incontrare davvero il popolo.
Hanno spade tecnologiche: decreti automatici, algoritmi per tracciare le scelte dei cittadini, app che registrano ogni clic e ci trasformano in dati da profilare.
Tutto all’apparenza moderno, ma dentro è lo stesso schema: un’élite che decide, una moltitudine che obbedisce.
Ecco perché, nel nostro teatro democratico, non serve più un Herzog o un Luigi XIV: bastano un premier, un ministro e un gruppetto di fedelissimi a fare la voce grossa.
Quei fedelissimi che diventano consulenti, portaborse, lobbisti, nuovi baroni che difendono privilegi e rendite di posizione come un tempo difendevano i feudi.
Il loro regno non si misura in ettari di terra, ma in miliardi di budget, in contratti pubblici e in posti di potere da spartire.