Le mafie nascono nell’Italia dell’Ottocento, quando lo Stato faceva i primi passi
e i contadini senza protezione affidavano i raccolti a “custodi privati”.
Sicilia, Campania, Calabria fecero scuola: Cosa nostra, Camorra e ’Ndrangheta
si organizzarono in famiglie e mandamenti, tessendo reti di estorsioni e omertà.
Con l’industrializzazione del Novecento, il racket si spostò al Nord:
Milano, Torino, Genova divennero hub di appalti pilotati, riciclaggio e contrabbando.
Le famiglie mafiose entrarono nella finanza, comprando ville, hotel e banche
di frodo, mentre i colletti bianchi proteggevano il business con firme false.
In politica si insinua come un virus:
sindaci, consiglieri e ministri si scoprono complici di “sovvenzioni facili”,
voti di scambio e leggi ritagliate su misura.
Ogni tornata elettorale è un mercato all’asta, ogni gara pubblica un banchetto
dove si spartiscono appalti e favori.
L’evoluzione globale ha moltiplicato i rami:
in Europa le cosche investono in società olandesi e tedesche,
usano trust offshore e criptovalute per nascondere conti.
Dalla droga al traffico di rifiuti, dalla tratta di esseri umani
alla penetrazione in opere infrastrutturali, niente sfugge al loro artiglio.
Il contrasto rimane un paradosso:
leggi antimafia che incatenano i giudici, commissioni parlamentari
che si perdono in audizioni, reati che scadono nel limbo della prescrizione.
Nel frattempo, le vittime si contano in cittadine silenziose,
in imprenditori costretti a pagare il pizzo, in lavoratori sfruttati
e in cittadini che perdono la fiducia nello Stato.
Il quadro è nitido: le mafie hanno colonizzato territori e istituzioni,
diffondendosi come un’ombra senza volto.
Rimane la resistenza di uomini e donne coraggiosi,
magistrati, giornalisti e attivisti che pagano con la vita
il prezzo di gridare verità scomode.
Nessuna chiusura in pompa magna,
perché la battaglia non è un finale di copione,
ma un impegno quotidiano.