Lavoratori… due parole, diecimila contratti, un milione di sogni, zero certezze.
Benvenuti al grande circo dell’occupazione precaria:
dove il contratto a tempo determinato muta ogni tre mesi in un prestigiatore,
e la promessa di rinnovarti è l’unica magia che non riesce mai.
Sapete cos’è un lavoratore?
È chi paga l’affitto di un monolocale da 600 euro netti, sorride al padrone di casa
e si chiede se il prossimo mese la bolletta del gas sarà un’altra stangata.
È chi va al supermercato con venti euro e ritorna col carrello vuoto di speranza.
È chi costruisce ponti che si sgretolano alla prima pioggia,
fa i conti coi numeri di un bilancio-fantasma
e firma fogli che chiamano “collaborazione” una catena a intermittenza.
È chi digita mail alle tre di notte per guadagnare un’ora in più,
chi al mattino lavora gratis per dimostrare che “vale di più”,
e alla sera scopre di contare meno di un like su un post aziendale.
Li vedete i “gig workers”?
Girovaghi digitali con uno smartphone come laccio al polso,
un click per ogni ordine, un click per ogni paga da fame.
Benvenuti nell’era dove la moneta di scambio è la tua stessa fatica.
E poi ci sono i “cervelli in fuga”:
la laurea col cappello da neolaureato, pronta a volare oltre confine,
perché qui il futuro lo vendono a rate,
ma le rate ce le fanno pagare tutte insieme.
Il lavoratore è un acrobata:
ha perso l’equilibrio tra vita privata e chiamate di emergenza,
subisce il rimbalzo di un ping-pong di scadenze,
si sveglia con la nausea di dover dimostrare ogni giorno
che non è un costo ma un investimento.
Gli oneri sociali?
Li paghi tu, con la pensione che non arriva,
col mutuo di un mutuo per comprare la casa dove non abiterai mai,
con le notti insonni di chi conta le ore tra un colloquio e l’altro.
Vi hanno mai detto “investire in te stesso”?
È lo stesso mantra che ti spacciano quando ti sistemano in un co-working da quattro soldi,
tra cactus finti e wifi ballerino.
Ma il vero investimento te lo chiedono in ore extra non pagate,
in weekend rubati, in ogni sacrosanta libertà
ceduta all’altare del “produttività a ogni costo”.
E intanto il costo della vita sale:
l’ecobonus diventa un’eco lontana,
la bolletta del riscaldamento è un bollettino di guerra,
e il carrello della spesa ha un conto che non torna mai.
Ecco il paradosso:
ci dicono che siamo nell’epoca della “flessibilità”,
una parola gentile per dire “schiavitù modulare”.
Più ti pieghi al mercato, più ti dicono bravo.
Ma un applauso non paga l’affitto.
Allora, lavoratori, facciamo un patto?
Non torniamo a casa felici solo perché abbiamo superato
il super-minimo sindacale.
Non mettiamo un like alla nostra stanchezza.
Non ritroviamoci a spegnere la televisione pensando che “ce la faremo”,
se alla mattina ce la fanno loro, a sfruttarci senza pietà.
Serve un mercato che non prometta l’impossibile,
serve un salario che non sia una barzelletta,
serve un luogo di lavoro che non sia un ring
dove scende chi ha più ganci bassi.
E se questo monologo vi ricorda troppo la vostra vita,
non applaudite: gridate.
Non mettete mi piace: cambiate le regole del gioco.
Perché il vero precario non è chi ha un contratto a termine,
ma chi ha perso la dignità di dire “basta”.
E finché non alzeremo la voce,
restiamo solo comparse nell’ultimo atto di un teatro in rovina.
Buonanotte, lavoratori… domani di nuovo in scena.