Il colpo di grazia al diritto alla salute: quando la privatizzazione svende il Servizio Sanitario Nazionale
Monologo satirico di Luca Bocaletto
Per decenni il Servizio Sanitario Nazionale italiano è stato un pilastro di equità e solidarietà: universale nella copertura, progressivo nei finanziamenti, garantito dalla fiscalità generale e dal principio costituzionale del diritto alla salute. Ma a partire dai primi anni ’90, con il D.lgs. 502/1992 – la cosiddetta “riforma della riforma” – e le successive leggi di aziendalizzazione e regionalizzazione, si è aperta la via a un sistema misto, in cui il privato convenzionato ha guadagnato sempre più spazi. Così, a un modello integrato e pubblico, è subentrata una logica di mercato: outsourcing dei servizi, tagli di bilancio e gare al massimo ribasso, che hanno progressivamente eroso i principi di universalità ed uguaglianza.
Oggi almeno il 60 % dei fondi pubblici destinati alla sanità finisce in mano ai privati: oltre la metà delle strutture per malattie croniche e l’80 % delle residenze sanitarie assistenziali sono gestite da attori profit, mentre ai poli pubblici restano compiti residuali. Nel 2000 l’OMS classificava l’Italia al secondo posto mondiale per qualità del servizio sanitario; oggi – nonostante un fabbisogno crescente – assistiamo a tagli sistematici e a un rapido smantellamento di reparti, posti letto e personale, a vantaggio di cliniche private e grandi gruppi sanitari.
Il definanziamento del SSN si è acuito con le politiche di austerity post-2008: ogni crisi economica ha significato nuovi limiti alla spesa, aumento dei ticket e crescita degli oneri “out of pocket”. Ne sono nate disuguaglianze tra Regioni e territori – tra aree urbane e rurali – e intere fasce di popolazione hanno dovuto rinunciare a cure essenziali. Oggi oltre 11 milioni di italiani dichiarano di aver rinunciato a prestazioni sanitarie per difficoltà economiche e organizzative, mentre il personale medico nei reparti soffre carenze croniche con quasi 70.000 medici in meno nei reparti ospedalieri.
Intanto i numeri parlano chiaro: l’Osservatorio GIMBE stima oltre 12 miliardi di euro sprecati tra sovra- e sottoutilizzo di prestazioni, disomogeneità di protocolli e duplicazioni amministrative. Sono risorse sottratte a investimenti in prevenzione, ricerca e potenziamento delle strutture pubbliche, che invece finiscono nelle casse di assicurazioni private, fondi di investimento e operatori profit, incentivati a privilegiare gli interventi economicamente più lucrosi.
I veri beneficiari? Le grandi catene ospedaliere accreditate, le agenzie di wealth management sanitario, le società di servizi che gestiscono appalti miliardari. Con il pretesto dell’efficienza, hanno sottratto al pubblico controllo venti anni di programmazione e democrazia sanitaria. I governi di ogni colore – da De Lorenzo a Meloni – hanno facilitato questa transizione, annacquando le missioni istituzionali dell’art. 32 della Costituzione e ignorando le denunce di corruzione e clientelismo che hanno infestato gli appalti in sanità.
Nel tempo, la privatizzazione ha rimodellato anche la risposta alle emergenze: la pandemia da COVID-19 ha messo in luce come un sistema regionale frastagliato e sottofinanziato sia meno reattivo di uno pubblico centralizzato. L’incapacità di coordinare le forniture, la debolezza della medicina territoriale e la frammentazione dei protocolli hanno aggravato il contagio e rallentato i vaccini, mentre le cliniche private facevano cassa con tamponi e terapie intensive a pagamento.
È in gioco non solo la salute, ma la stessa democrazia: quando il pubblico affida funzioni essenziali ai privati senza trasparenza né controlli, perde accountability e voce dei cittadini. Il bilancio si trasforma in un pranzo di gala per i profittatori, mentre i pazienti diventano clienti, le liste d’attesa una roulette russa e le cure un privilegio anziché un diritto.
Se vogliamo invertire la rotta, serve un atto di verità e responsabilità:
1. Ripubblicizzazione progressiva delle funzioni sanitarie strategiche, con clausole di trasparenza e vincoli di provenienza dei fondi;
2. Blocco immediato di nuovi accreditamenti privati e revisione dei contratti esistenti, premiando il reinvestimento in strutture pubbliche;
3. Rafforzamento della governance democratica, con la nomina dei vertici ospedalieri a commissioni miste di operatori, pazienti e rappresentanti civici;
4. Investimenti sostanziali in prevenzione, ricerca e medicina territoriale;
5. Introduzione di indicatori di qualità e outcome legati a contratti di finanziamento, non più basati sui flussi di cassa ma sui risultati sanitari reali.
È questa la sfida: restituire al Sistema Sanitario Nazionale la sua ragion d’essere, cioè il diritto alla salute per tutti, non il profitto per pochi. Solo così potremo dire che l’Italia ha rialzato la testa, riprendendo il percorso di coesione sociale che la Repubblica aveva immaginato.