Articolo 18… tre caratteri scolpiti nello Statuto dei Lavoratori,
una promessa di reintegro che un tempo suonava come un inno di speranza.
Fu l’apice di una stagione in cui il licenziamento illegittimo era una ferita da curare,
non una voce del bilancio da risparmiare.
La sentenza di reintegro, più la retribuzione arretrata,
era il chiodo fisso dei consigli di fabbrica,
il salvagente per chi non voleva finire in mare aperto di precarietà.
Poi arrivarono le riforme, i decreti e i colpi di spugna:
prima un’eredità di previdenza, poi un Jobs Act che mutò la tutela in moneta,
una pioggia di indennizzi limitati a dodici mensilità
per ricordarci che il diritto vero è diventato un parcheggio a tempo.
Il lavoratore licenziato ora riceve un buono consumabile,
un gettone al posto del posto,
una cedola di consolazione per un datore di lavoro
che può risparmiare il precedente chiodo nel muro del contratto.
E intanto la burocrazia sfiora l’assurdo:
“Domani potresti essere reintegrato… forse”,
con una clausola di sospensione e ricorso
degna di un romanzo di Kafka,
dove il giudice ordina e il timbro politico procrastina.
I sindacati invocano “tutela forte” ma si perdono nelle assemblee,
i partiti promettono “ripristino” e poi scompaiono tra emendamenti e capitoli di spesa.
Le PMI attendono sicurezza,
ma tutto ciò che resta è un lago di protocolli
e una riva di cuori infranti.
Allora, cittadini spettatori, fate silenzio:
non applaudite.
Chiedete un fischio che spezzi la cappa dei decreti,
un coro che urli la verità:
il diritto al posto è più di un rimborso a rate,
è dignità rimessa al centro delle leggi, non parcheggiata in un capitolo di Bilancio.
Buonanotte, Articolo 18…
domani svegliaci
quando quella promessa tornerà a suonare
non solo in un maledetto comma.